Deposito di memorie in tuta blu

Deposito di memorie in tuta blu

Si agogna a lavorare all'Elettrocarbonium perché la dignità, la possibilità di affrancarsi dagli stenti, di mettere su famiglia o di mantenerla, di realizzare qualche sogno, come acquistare a rate uno scooter o un'auto, di generare un desiderio di concordia interna, di formare una “cultura”, dalle appartenenze politiche in virtù dell'esperienza di vita, di lavoro e dell'amicizia personale.

La prefazione di Antonio D'Isidoro

Questo prezioso deposito di memorie parla di tute blu e anche di noi, della colpevole rapidità con cui abbiamo smarrito troppo precocemente una sensibilità collettiva, anche a causa di una straordinaria capacità di smemoratezza e di battaglie da retroguardia.
La densità dei materiali offertaci dalle testimonianze di alcuni operai e capi reparto dell'ex Carbon costringe ciascuno di noi a misurarsi soprattutto con cecità, ostilità, contraddizioni, silenzi e assenze che hanno determinato una negativa inversione di tendenza, la dismissione di quella che è stata la più importante realtà produttiva cittadina, la scomparsa di un mondo che aveva alimentati inquietudini ma anche tante speranze e consentito a tanti di soddisfare bisogni primari.
Le illuminanti interviste raccolte con cura da Giorgi ci aiutano, da una parte, a comprendere meglio cosa abbia significato l'Elettrocarbonium per la nostra città soprattutto in termini di occupazione, cultura del lavoro, professionalità, qualità produttiva, riconoscimento dell'operaio come persona, legame della fabbrica con la vita urbana; dall'altra, ci invitano a una seria riflessione, dopo l'eclissi produttivistica di uno sviluppo senza limiti, sulle nuove preoccupazioni, sulle nuove disperazioni e sul rapporto azienda-ambiente, a sguardi realmente attenti ai costi umani delle trasformazioni in atto, allo spettro della disoccupazione e dei licenziamenti, al passaggio da un soggetto monolitico, collettivo con una forte identità a un soggetto con caratteristiche opposte, individualismo e identità multiple, a un operaio diventato "una tesi assistenziale" (Alberto Arbasino).
Ci invitano a sguardi capaci di indagare a fondo le conseguenze sociali e personali della crisi, delle forme sempre più diffuse di precarietà e povertà.
Raccontano un lavoro durissimo, non immune da rischi ("impiego di materiali nocivi e tossici", "fumi di pece"; "si diventava tutti uguali, neri, con una finestra bianca, i denti, quando sorridevi"), intriso di fatica ma anche di senso etico, di solidarietà umana " che leniva il peso del lavoro".
Quest'ultimo, insomma, diventa anche un'immagine di sé nei racconti degli operai.
Orgogliosi del proprio posta e pronti a difenderlo con tenacia; fieri del proprio benessere, superiore a quello degli operai di altre aziende cittadine e disposti a dare tutto a essere esempi di altruismo e a impegnarsi per possibilità migliori di carriera.
Si agogna a lavorare all'Elettrocarbonium perché la dignità, la possibilità di affrancarsi dagli stenti, di mettere su famiglia o di mantenerla, di realizzare qualche sogno, come acquistare a rate uno scooter o un'auto di generare un desiderio di concordia interna, di formare una “cultura”, dalle appartenenze politiche in virtù dell'esperienza di vita, di lavoro e dell'amicizia personale.
In ogni caso, va evidenziato che le interviste non si limitano a darci le usuali rappresentazioni positive dell'azienda come "grande famiglia", in cui i lavoratori rimangono invisibili e in cui gli occhi dei "capi" e dei quadri intermedi sono concentrati sulla produzione, sul prodotto, sui tempi, prima ancora che sugli effetti che tutto ciò avrebbe potuto avere sui "produttori".
Certo, si crea un luogo di socialità una comunità di fabbrica unita da comportamenti, esperienze, atteggiamenti culturali, valori collettivi, ma non si tratta di un tipo di umanità uniforme nei desideri e persino nei pensieri ridotta a un piccolo ingranaggio che funziona quasi per istinto.
Nel concludere, mi piace ricordare le seguenti parole di Ermanno Rea: "E se la dismissione stesse diventando …............. un rito di autocannibalismo collettivo? Voglio dire che (…... ) la parola dismissione mi fa paura (…...... ) per le sue pretese onnivore, per la sua capacità di alludere al mondo intero: per lo meno al mio mondo, al mondo di coloro che hanno la mia stessa età e hanno vissute le mie stesse esperienze, coltivato le mie stesse speranze".



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